Una prospettiva evolutiva su efficacia ed efficienza dell’esercizio nel trattamento del diabete di tipo 2

Durante gli ultimi 30 anni, la prevalenza globale del diabete mellito di tipo 2 (T2D) è pressoché quadruplicata e questa tendenza non mostra segni di rallentamento. Di fronte a questa epidemia sorge un dilemma: è ormai appurato come un cambiamento negli stili di vita (in particolare per quanto concerne dieta e livelli di attività fisica) sia di cruciale importanza nella gestione di questo tipo di problematica, ma ciò risulta estremamente difficile da raggiungere e mantenere nel lungo termine per i pazienti.
In questa revisione narrativa, gli autori hanno analizzato la questione attraverso l’efficacia (effetto di un intervento in condizioni ideali) ed efficienza (effetto “real world” dell’intervento) dell’esercizio per la gestione del T2D, partendo da una prospettiva di tipo evolutivo.
Il paradosso dell’esercizio
Gli esseri umani si sono evoluti in risposta alla necessita di compiere attività fisica durante tutto l’arco della vita, ma al contempo, il concetto di esercizio fisico è stato introdotto solamente nelle moderne economie industriali. Per circa il 96% dell’evoluzione umana, le richieste fisiche erano continue e svariate (ancora oggi, i cacciatori-raccoglitori eseguono attività fisica da moderata a vigorosa per una media di 135 minuti al giorno). Questi livelli di attività fisica sono aumentate in seguito alla rivoluzione agricola (il restante 4% dell’evoluzione). Durante questo periodo dell’evoluzione, l’ambiente è stato caratterizzato anche da un’importante scarsità di energia, rendendo adattiva la tendenza a limitare il più possibile l’attività fisica. Questa tendenza è tuttavia divenuta maladattiva dopo la rivoluzione industriale, negli ultimi 150 anni (corrispondenti allo 0,04% dell’evoluzione umana), il che porta a considerare il T2D come una condizione da mismatch evolutivo.
In conclusione, è possibile considerare l’attività fisica come un comportamento al quale siamo naturalmente avversi, salvo quando è strettamente necessaria, o quando prevede una ricompensa adeguata, e ciò può determinare un’importante limite al coinvolgimento dei pazienti con T2D in programmi di esercizio nel lungo termine.
Efficacia dell’esercizio nella prevenzione e nel trattamento del T2D
È assodato come l’esercizio sia in grado di prevenire l’insorgenza di T2D, con un effetto dose-risposta: se 150 minuti di esercizio settimanali riducono il rischio di insorgenza del 26%, 300 minuti settimanali portano questa percentuale al 36%, ma con volumi maggiori si può raggiungere il 53%.
Per quanto riguarda il trattamento del T2D, sebbene molti degli studi che lo hanno indagato siano caratterizzati da un rischio di bias da moderato a elevato, è stato dimostrato un effetto modesto, ma tuttavia significativo sui livelli di emoglobina glicata (HbA1c) dell’esercizio.
Nonostante questi risultati incoraggianti, gli studi in analisi sono accomunati da un peggioramento degli outcome con il passare del tempo.
Efficienza dell’esercizio nella prevenzione e nel trattamento del T2D
Gli outcome a lungo termine degli studi analizzati sono peggiori di quelli a breve termine, ed un ruolo cruciale in questo fenomeno viene giocato dall’aderenza al trattamento. È stato mostrato, negli studi inclusi, che l’aderenza tende a diminuire in maniera significativo dopo un anno dall’inizio del trattamento. Un ulteriore problema risiede nel fatto che la maggior parte dei programmi di esercizio prescrive ha una posologia di 150 minuti alla settimana (21 minuti al giorno), che, sebbene abbia effetti benefici rispetto al non effettuare alcun esercizio, non risulta una dose sufficiente per ottimizzare il controllo glicemico.
Cosa fare, dunque?
Una difficoltà riscontrata di frequente dai clinici che prescrivono l’esercizio è rappresentata dal fatto che, sebbene sia benefico, spesso è inefficace e, talvolta, controproducente. Infatti, il modello medico di prescrizione dell’esercizio si focalizza sui benefici fisiologici e spesso lo rappresenta come un dovere, o il cuore di una strategia terapeutica o preventiva, ignorando però gli aspetti comportamentali, psicologici e sociali che, a livello istintivo, regolano i comportamenti legati al movimento negli umani. Per ovviare a questo problema, sono state proposte alcune riflessioni che possono risultare utili nel gestire il principale ostacolo allo svolgimento di un programma di esercizio, ovvero l’aderenza:
- Riconoscere la poca predisposizione ad effettuare esercizio come un aspetto normale dell’essere umano. L’inclinazione ad evitare attività fisiche che non siano necessarie o che non prevedano una ricompensa adeguata è insita in noi, figlia del processo evolutivo: è quindi opportuno che i clinici approccino il tema dell’aderenza alla terapia in maniera non giudicante, riconoscendo una tendenza istintiva in ciò che, a prima vista, potrebbe essere definita come pigrizia.
- Aiutare i pazienti a partecipare ad attività fisiche con forte caratterizzazione sociale. Un altro istinto antichissimo degli esseri umani è quello della socialità: attività come il gioco, la danza ed il cammino, se eseguite insieme ad altri, sono in grado di aumentare in maniera importante motivazione e aderenza. Per quanto riguarda questo punto, è opportuno riconoscere i limiti dell’approccio individuale del singolo paziente e del singolo professionista: i fattori ambientali andrebbero considerati e manipolati a livello di governance.
- Implementare soluzioni sistemiche per problematiche sistemiche: l’ambiente moderno rappresenta una situazione di mismatch evolutivo. Sarà quindi opportuno studiare dei programmi volti ad aumentare i livelli di attività fisica nell’ambiente scolastico e lavorativo, essendo questi ultimi quelli in cui gli individui trascorrono la buona parte del loro tempo.
MacDonald C, et al. Why exercise may never be effective medicine: an evolutionary perspective on the efficacy versus effectiveness of exercise in treating type 2 diabetes. Br J Sports Med. 2025 Jan 2;59(2):118-125.
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/39603793/
Fisioterapista, OMPT
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