La gestione conservativa della tendinopatia achillea
Il tendine di Achille è il tendine più grande e forte del corpo umano. Durante attività come la corsa e il salto, è soggetto a carichi anche fino a 12 volte il peso corporeo. Ma, nonostante questa elevata capacità di carico, la tendinopatia achillea rappresenta uno dei disturbi muscoloscheletrici più frequenti nella popolazione generale e negli sportivi, in modo particolare nei runner che percorrono lunghe distanze.
La prevalenza aumenta con l’invecchiamento, probabilmente per uno stile di vita più sedentario e la presenza di comorbilità.
È una condizione clinica caratterizzata da dolore localizzato, dolore alla palpazione, dolore dose-dipendente correlato al tipo carico dell’attività, gonfiore, rigidità mattutina e limitazione funzionale.
Questo disturbo interessa più frequentemente il terzo medio del tendine di Achille, ma può verificarsi anche a livello dell’inserzione distale. La gestione conservativa nelle due differenti presentazioni è simile, con una maggiore attenzione nella tendinopatia inserzionale a evitare o comunque a introdurre con una maggiore gradualità le forze compressive a livello del tendine.
L’ecografia e, meno frequentemente, la risonanza magnetica, sono in genere utilizzate nella clinica e , soprattutto, nella ricerca per confermare la diagnosi e per escludere altri disturbi che potrebbero mimare questa condizione (come, ad esempio, una borsite retrocalcaneare, un impingement posteriore di caviglia e una lesione parziale del tendine).
Però, le alterazioni strutturali sono molto frequenti nei soggetti completamente asintomatici (anche fino al 50%), non predicono l’outcome e hanno una scarsa associazione con la gravità dei sintomi e delle limitazioni funzionali. È comunque raro riscontrare un dolore persistente al tendine in assenza di modificazioni strutturali. Inoltre, l’area con il grado maggiore di alterazione strutturale corrisponde spesso alla zona più dolorosa.
L’esatta eziopatogenesi rimane sconosciuta. È sicuramente una condizione multifattoriale, dove una complessa interazione tra fattori intrinseci e fattori estrinseci determina un sovraccarico del tendine.
Il sovraccarico può determinare lo sviluppo di alterazioni patologiche che modificano le proprietà meccaniche e strutturali del tendine, con una conseguente riduzione della capacità di carico.
Di conseguenza, l’esercizio con carichi progressivi è utilizzato come strategia per aumentare la capacità di carico, locale e globale.
Negli atleti, i principali fattori contribuenti all’insorgenza della tendinopatia achillea sono il sovraccarico ripetitivo e gli errori nella pianificazione e nella gestione dell’allenamento.
Altri fattori che possono contribuire all’insorgenza del disturbo sono un profilo psicologico alterato, uno stile di vita non corretto, una scarsa qualità del sonno e una storia di precedenti infortuni.
Nella popolazione generale, l’insorgenza della tendinopatia achillea è spesso osservata dopo un cambio di abitudini, ad esempio dopo aver fatto “troppo o troppo velocemente qualcosa dopo aver fatto troppo poco per troppo tempo”.
Sono spesso soggetti “fragili”, con fragilità tissutale, ovvero soggetti che presentano disturbi sistemici che riducono la capacità di carico del tendine di Achille, come ipertensione, ipercolesterolemia, diabete o disturbi alla tiroide. In alcuni casi sono soggetti che hanno fatto un prolungato uso di determinati antibiotici.
Purtroppo i soggetti con fragilità tissutale sono in genere esclusi dagli studi che indagano gli effetti dell’esercizio terapeutico. Di conseguenza, non conosciamo gli effetti di questa strategia in questa popolazione.
Esiste una terza categoria di soggetti che possiamo definire semplicemente sfortunati, ovvero soggetti con determinati polimorfismi genetici che determinano una riduzione della capacità di carico del tendine. Questi soggetti hanno un rischio maggiore di sviluppare una tendinopatia achillea persistente o ricorrente. Anche questi soggetti, come i soggetti fragili, sono in genere esclusi dagli studi che indagano l’efficacia dell’esercizio terapeutico. Di conseguenza, anche in questa popolazione gli effetti dell’esercizio terapeutico non sono conosciuti.
Il riposo è importante nella fase reattiva e nella fase iniziale di alterata riparazione per evitare una possibile progressione del disturbo. Sono consigliati i genere 2-3 giorni di recupero tra le attività molto impegnative per favorire il turnover del collagene. Con l’aumentare della capacità di carico del tendine e con i miglioramenti della sintomatologia, il tempo di recupero può diminuire. Il turnover del collagene si riduce con il passare degli anni, quindi soggetti meno giovani necessitano di tempi di recupero maggiori.
Un riposo prolungato dovrebbe essere evitato perché riduce la capacità di carico del tendine e della catena cinetica. Negli sportivi, un riposo eccessivo potrebbe ridurre la performance. Evitare un riposo eccessivo potrebbe avere un impatto positivo sullo stato di salute generale dei soggetti fragili, in quanto presentano dei disturbi sistemici che sono influenzati negativamente dall’inattività prolungata.
L’esercizio terapeutico con carico progressivo rappresenta la strategia più efficace per ridurre il dolore e migliorare la funzionalità nei soggetti con tendinopatia achillea. È raccomandato di gestire i soggetti con questo disturbo per almeno 3 mesi prima di considerare altre strategie di trattamento. Secondo un recente editoriale, è raccomandato di gestire i soggetti con questo disturbo per almeno 12 mesi prima di considerare l’approccio chirurgico.
In letteratura sono presenti numerosi training di carico, senza alcuna differenza clinicamente rilevante per dolore e funzionalità. Una caratteristica comune ai protocolli proposti è la richiesta di eseguire gli esercizi con un dolore moderato. Un dolore moderato, accettabile per il paziente, durante l’esecuzione degli esercizi, potrebbe essere necessario per dosare un carico sufficiente per creare un adattamento neuromeccanico.
Il training eccentrico proposto da Alfredson è probabilmente il protocollo di carico più frequentemente utilizzato nella pratica clinica e sicuramente più indagato in letteratura. Consiste in 2 esercizi di rinforzo isolato e progressivo del tricipite surale in stazione eretta: sollevamento sulla punta a ginocchio esteso e sollevamento sulla punta a ginocchio flesso. Caratteristica principale di questo protocollo è l’elevato dosaggio: prevede infatti l’esecuzione di 180 ripetizioni al giorno, 7 giorni su 7, senza giorni di riposo.
Alfredson, convinto sostenitore dell’efficacia del suo protocollo, ha proposto anche un algoritmo di trattamento. Questo algoritmo prevede che i soggetti con tendinopatia achillea siano gestiti con il training eccentrico per 3 mesi. Se i pazienti presentano dei miglioramenti, continueranno a eseguire il protocollo per 12 mesi; se i pazienti non presentano dei miglioramenti, continueranno a eseguire il protocollo per 12 mesi. È di conseguenza un algoritmo che lascia qualche perplessità.
A un paziente che si presenta alla nostra attenzione con un dolore persistente, dobbiamo quindi dire che per guarire dovrà sentir male 180 volte al giorno? Probabilmente no, in quanto non esistono differenze rilevanti nell’outcome tra i pazienti che effettuano il training eccentrico nel dosaggio proposto da Alfredson e i pazienti che effettuano gli esercizi con un dosaggio inferiore, auto-dosato secondo le loro preferenze.
Nella pratica clinica, come è possibile stabilire il dosaggio ottimale dell’esercizio? Ad esempio, utilizzando un modello di monitoraggio del dolore o la valutazione dello sforzo percepito (scala di Borg).
Il protocollo di Alfredson ha dei limiti importanti. In primis, l’elevato dosaggio richiesto potrebbe limitare l’aderenza, con un conseguente impatto negativo sugli outcome nel lungo termine. Inoltre, non esiste un razionale per il dosaggio proposto né per evitare o limitare la contrazione concentrica.
Essendo un protocollo che deve essere eseguito tutti i giorni, limita in modo importante l’integrazione con altre strategie, come la pliometria e la graduale ripresa dell’attività sportiva.
Di conseguenza, altri autori hanno proposto un training basato su contrazione concentriche ed eccentriche, eseguite lentamente con carichi elevati (HSRT). Questo training non presenta differenze nel dolore e nella funzionalità se confrontato con il protocollo di Alfredson. Ma, essendo eseguito a giorni alterni, potrebbe avere un impatto positivo sull’aderenza e, di conseguenza, sugli outcome nel lungo termine.
L’esercizio isometrico non riduce il dolore nell’immediato nella tendinopatia achillea, a differenza di quanto riportato per la tendinopatia rotulea.
Nel processo di esposizione graduale, un training HSRT, essendo eseguito a giorni alterni, si integra in modo ottimale con le strategie per il recupero di eventuali impairment (come ad esempio un deficit di flessione dorsale di caviglia) e per la riduzione del dolore, con gli esercizi per migliorare il controllo e la capacità neuromuscolare della catena cinetica, con gli esercizi pliometrici e con la graduale ripresa delle attività sportive. Ad esempio, si integra con facilità nei runner alle sessioni di running retraining, se considerate necessarie.
Con i training di carico, dolore e funzionalità migliorano in modo rilevante dopo circa 4 settimane.
Conoscere i tempi nei quali si verificano i miglioramenti è importante, in quanto permette di ipotizzare i meccanismi coinvolti alla base dei cambiamenti e, quindi, di enfatizzare le strategie più efficaci in ogni fase del recupero.
Purtroppo, i miglioramenti hanno un plateau o un declino dopo circa 3 mesi dall’inizio del trattamento.
Perché i protocolli di carico sono efficaci? Probabilmente non per un adattamento strutturale. La capacità del tendine degenerato di recuperare una struttura normale è molto limitata e è ampiamente dimostrato che solo la porzione sana del tendine è in grado di adattarsi alle sollecitazioni. Inoltre, 4 settimane dall’inizio del trattamento, durante le quali è possibile osservare un miglioramento dei sintomi e della funzionalità, rappresentano un periodo insufficiente per il verificarsi di modificazioni strutturali.
I miglioramenti iniziali possono conseguire a un adattamento neuromotorio. Gli esercizi di carico riducono l’inibizione corticale e aumentano il numero e la velocità di reclutamento delle unità motorie, con un conseguente miglioramento dell’espressione della forza muscolare. L’esercizio moderatamente doloroso potrebbe inoltre modificare i processi potenzialmente alterati di elaborazione e modulazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale.
Ma questi aspetti, ampiamente indagati in altri disturbi muscoloscheletrici, sono ancora poco approfonditi nella tendinopatia achillea.
Il miglioramento dei sintomi nel breve termine può essere la conseguenza dell’educazione del paziente (gestione del carico e dei fattori aggravanti), della riduzione della paura del movimento e del processo di modifica delle credenze errate.
È anche possibile che i miglioramenti iniziali siano conseguenti ad un effetto placebo, in particolare all’effetto aspettativa, in quanto il fisioterapista dice al paziente che con gli esercizi saranno presenti dei miglioramenti in poche settimane.
L’educazione rappresenta una delle principali strategie nella gestione della tendinopatia achillea e, più in generale, in tutti i disturbi muscoloscheletrici. Il processo educativo comprende la comprensione e la gestione dei fattori di rischio e dei fattori aggravanti, le strategie per modificare le credenze errate (come la paura del movimento e le scarse aspettative) che potrebbero ridurre l’aderenza e la definizione del corretto livello di dolore durante l’esecuzione degli esercizi e le attività.
Per facilitare il ruolo attivo del paziente nel trattamento, con l’obiettivo di ottimizzare l’aderenza all’esercizio, può essere utilizzato un diario. Un diario permette inoltre di monitorare i sintomi e stabilire la progressione/regressione del carico negli esercizi e nelle attività sportive.
Come sostiene Michael Rathleff per il dolore femororotuleo, concetto condivisibile in tutti i disturbi muscoloscheletrici, se il paziente ricevesse una corretta educazione nelle prime fasi del disturbo, la necessità di strategie successive potrebbe essere minima.
L’esercizio è quindi la ricetta magica nella gestione della tendinopatia achillea? Probabilmente no, anche se rappresenta ad oggi la ricetta migliore a nostra disposizione.
Perché non è la ricetta magica? Perché i sintomi, nonostante i miglioramenti iniziali, raggiungono un plateau o un declino dopo 3 mesi, una percentuale molto elevata di pazienti (anche fino al 60%) continua a riferire sintomi persistenti o ricorrenti nel lungo termine e quasi la metà sviluppa sintomi nel tendine di Achille controlaterale.
Inoltre, pochi studi (con campioni limitati e alto rischio di BIAS) hanno confrontato i training di carico con la storia naturale del disturbo, con trattamenti placebo/sham e con altre strategie più tradizionali (terapie fisiche, massaggio).
Perché l’outcome nel lungo termine è spesso non ottimale? Forse perché non sono considerate attentamente tutte le variabili coinvolte.
L’aderenza può avere un impatto positivo sull’efficacia del trattamento. È importante individuare barriere e facilitatori all’esecuzione degli esercizi, scegliere strategie per favorire un’aderenza ottimale in relazione al contesto e alle preferenze del paziente, enfatizzare il ruolo attivo del paziente all’interno delle strategie di trattamento. In sintesi, è importante che il paziente comprenda che gli esercizi fanno bene a chi li fa.
Gli outcome insoddisfacenti nel lungo termine potrebbero essere conseguenza di dosaggi e/o di carichi dell’esercizio inadeguati. La debolezza del gastrocnemio e, in particolare, del soleo è uno dei principali fattori modificabili associati alla tendinopatia achillea. Nei soggetti sani, il soleo è in grado di sviluppare una forza eccentrica pari a 2 volte il peso corporeo. Di conseguenza, per recuperare questa capacità di carico nei soggetti con tendinopatia achillea sono necessari carichi esterni elevati.
Un altro fattore modificabile, frequentemente associato alla tendinopatia achillea soprattutto nei runner, è una debolezza e/o un deficit di controllo neuromuscolare dei muscoli prossimali, in particolare dei muscoli posterolaterali dell’anca. Questo deficit può modificare la cinematica dell’arto inferiore, alterando di conseguenza la distribuzione delle forze nei segmenti più distali.
Una sensibilizzazione centrale, evidenziabile con il questionario CSI, è presente in un sottogruppo di soggetti con tendinopatia achillea. La sensibilizzazione centrale ha una scarsa correlazione con la durata e la gravità dei sintomi, ma potrebbe rappresentare un fattore che ostacola l’outcome ottimale nel lungo termine. Di conseguenza, i pazienti con tendinopatia achillea potrebbero necessitare non solo di un approccio multifattoriale, ma anche di una gestione multidimensionale.
L’outcome potrebbe essere insoddisfacente nel lungo termine anche perché ad oggi non è conosciuta l’efficacia dell’esercizio in determinate popolazioni. Sono infatti esclusi dagli studi clinici gli adolescenti, gli anziani, i soggetti fragili e gli atleti professionisti. Di conseguenza, i training di carico potrebbero essere meno efficaci in questi soggetti, soprattutto se considerati come unica strategia di trattamento.
L’outcome non ottimale potrebbe essere la conseguenza di un alterato profilo psicosociale. In particolare, uno dei fattori psicologici spesso presente è la paura di subire una rottura del tendine. Ma è possibile tranquillizzare i pazienti, dato che la lesione del tendine di Achille si verifica solo in una percentuale molto piccola dei soggetti con tendinopatia.
Esistono nuove strategie per la gestione conservativa della tendinopatia achillea? Probabilmente no, ma due sono gli articoli recenti che più hanno catturato la mia attenzione.
Il primo articolo evidenzia la contiguità tra fat pad e porzione del tendine con alterazione strutturale e dolore. Da un fat pad infiammato, per la sua elevata vascolarizzazione, potrebbero originare i neovasi che infiltrano il tendine doloroso. Inoltre, tramite questi neovasi, il fat pad potrebbe veicolare al tendine citochine, responsabili probabilmente dell’infiammazione a basso grado spesso osservabile nelle tendinopatie persistenti.
Il secondo articolo propone una nuova interpretazione della neoangiogenesi. La formazione di neovasi è sempre stata considerata come una delle possibili cause del dolore tendineo persistente e il razionale per l’utilizzo di sclerosanti. In realtà, la neoangiogenesi potrebbe essere considerata come un strategia inefficace di rigenerazione tendinea. Inefficace perché i neovasi hanno pareti fragili e, di conseguenza, non sono in grado di veicolare ossigeno e nutrienti al tendine degenerato. Esistono approcci sperimentali che hanno l’obiettivo di rendere più forti le pareti dei neovasi, rendendo quindi queste strutture in grado di portare sangue al tendine degenerato, permettendo quindi di facilitare i processi di riparazione/rigenerazione.
Relazione presentata al XVII Congresso Nazionale del GTM
“The management of foot & ankle complex“
9-10 novembre 2019 – Bologna
Fisioterapista, MSc, OMPT
Passione Evidence-Based. Con la speranza di diventare un Fisioterapista migliore
https://samuelepassigli.wordpress.com/
https://orcid.org/0000-0003-2862-0116
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